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SCOPERTA UNA STONEHENGE IN ASPROMONTE. LE FOTO


Individuati 27 monoliti vicino alla Pietra Cappa, che apparterrebbero al più grande sito del periodo neolitico della Calabria. La scoperta, fatta dagli archeologi piemontesi, riguarda grandi pietre, alcune delle quali alte oltre quattro metri, che si trovano un antico sentiero che dall’Aposcipo porta a Roghudi Antica

Dopo cinque anni di ricerche e studi è possibile la misurazione e la creazione al computer di una mappa dettagliata di questo sito definito di importanza "straordinaria" dagli studiosi. Il sito era usato per scopi rituali e per la misurazione del tempo. "La presenza di quelle che appaiono come pietre, che circondano il sito di uno dei maggiori insediamenti neolitici d'Europa, aggiunge un nuovo capitolo alla storia della Calabria"

 
Il concetto del tempo non venne scoperto in Mesopotamia 5 mila anni fa, come si pensava sino ad oggi, ma nel remoto Aberdeenshire, in Scozia. Lo rilevano scavi archeologici condotti da una equipe britannica dell’università di Birmingham in un insediamento risalente a 10 mila anni fa dove è stato scoperto un calendario annuale. La struttura, formata da buche sulle quali erano piazzate grosse pietre, sarebbe stata in grado di misurare il passaggio delle stagioni e le fasi lunari.
 

L'INCREDIBILE LEGGENDA DI GIORDANO CALARUZZO, IL CANNIBALE CALABRESE

Giordano Calaruzzo e i suoi figli in azione
Giordano Calaruzzo nacque nel 1763, nel ducato di Sinopoli, a una quarantina di chilometri da Reggio di Calabria.
In quella immensa distesa di castagneti e uliveti secolari, i signori Calaruzzo lavoravano tutto il giorno nei campi e, come loro, il giovane Giordano si dedicò per qualche anno alla coltivazione nella terra del padre.
Il malumore crebbe in quel ragazzo di giorno in giorno, a causa della sua avversione allo starsene per ore a lavorare la terra, oltre che per il poco interesse a svolgere quel compito faticoso e per la passione per la caccia e il gioco d'azzardo.
Così, ancora minorenne, Giordano Calaruzzo lasciò l'abitazione dei genitori senza nessuna destinazione prefissata, cominciando a vivere come un mendicante nei villaggi della zona.
Un giorno conobbe una ragazza di nome Agnese Ruffiani, che come lui si arrangiava per sopravvivere. Tra i due ci fu subito un'intesa basata sul fatto che la indole di entrambi era orientata alle più perverse inclinazioni sadiche e violente, così andarono a vivere insieme vicino al Promontorio di Sant'Elia.
La compagna di Calaruzzo  praticava la stregoneria illudendo parecchie persone del paese con riti che a quell'epoca erano all'ordine del giorno, quando però, qualche mese più tardi, si venne a conoscenza della professione della donna, lei ed il suo compagno furono obbligati a scappare prima di una probabile esecuzione al rogo. La loro nuova "casa" fu  una caverna che era situata sulla costa dell'odierna Costa Viola, l'oggi conosciuta Cala di Janculla.
Questo posto umido e freddo, era pieno di strettoie e passaggi quasi inaccessibili. Oltretutto l'alta marea, che puntualmente arrivava tutti i giorni, impediva a qualsiasi curioso di addentrarsi in quel luogo buio e maleodorante. In qualche modo Calaruzzo e la sua amante si organizzarono alla meglio dentro quel rifugio che per molti anni permise loro di compiere indisturbati delitti atroci a discapito di centinaia di vite umane.

Una delle grotte dove si nascondeva il clan
Senza un lavoro e con una donna da mantenere, Calaruzzo andava girando alla ricerca di qualche mendicante come lui o viaggiatore di passaggio e depredava oggetti di valore e qualche soldo. Alcune volte gli andava bene, perché la vittima era talmente ubriaca da non poterlo identificare, ma in altre circostanze rischiò di essere catturato. Concluse quindi che l'unica soluzione per non essere accusato di furto era quella di uccidere i malcapitati, solamente eliminando qualsiasi possibile testimonianza poteva avere la certezza di farla franca. L'idea fu comunicata alla sua compagna.
In genere Calaruzzo si accertava che la vittima fosse sola, poi la seguiva ad una certa distanza, infine da dietro la colpiva in testa con un grosso bastone, la derubava, e ne nascondeva il corpo sotto la sabbia. Poi, con i soldi del furto, andava nel più vicino villaggio a comprare vino e qualcosa da mangiare.
Per qualche anno la coppia tirò avanti così, ma, con l'arrivo dei primi figli, l'esigenze della famiglia cambiarono radicalmente: la refurtiva non bastava più per sfamare tutti, perciò, di comune accordo, Calaruzzo e consorte decisero che la carne se la sarebbero procurata direttamente dai cadaveri dei viandanti e dei mendicanti.
Nel febbraio del 1783, subito dopo il devastante terremoto che colpì la provincia di Reggio Calabria Calaruzzo  inizio la sua opera di sciacallaggio. Si aggirava di notte tra le macerie dei paesi distrutti e uccideva i superstiti cucinandoli sul posto insieme alla compagna e alla numerosa prole. I cadaveri furono poi portati nella caverna, dove i Beane con una grossa lama, rubata ad un pescatore di Bagnara, aprirono loro il torace, estraendone le viscere. Infine i corpi furono fatti a pezzi: alcune parti vennero conservate in salamoia con l'acqua di mare, altre trattate e appese con dei ganci alle pareti, pronte per essere consumate. Le ossa le accatastarono in fondo alla caverna, facendone dei grandi mucchi, mentre quello che rimaneva veniva gettato in mare in pasto ai granchi e murene.
Col passare del tempo la famiglia si allargò a dismisura, attraverso una serie di incesti, arrivò a comprendere otto figli maschi, sei figlie, diciotto nipoti maschi e quattordici nipoti femmine. Tutti i discendenti di Calaruzzo furono addestrati ad uccidere e abituati a mangiare carne umana.
Un giorno un gruppo di otto frati in pellegrinaggio per il Santuario di San Rocco d'Acquaro, fu accerchiato e attaccato dai membri del clan Calaruzzo e per quelle persone non ci fu scampo. Portati velocemente nella caverna, gli uomini del clan ebbero il compito di smembrarli, mentre le donne si dedicarono alla conservazione, quello che non servì fu come sempre gettato in mare.
Ad un certo punto le provviste di carne umana erano così abbondanti che molte di queste andarono in putrefazione, (possiamo immaginare l'odore insopportabile che ci doveva essere in quella caverna, con tutti quei pezzi appesi ai muri che andavano a male).
Nel frattempo nella zona si registrava ogni anno un'elevata percentuale di persone scomparse,  molte famiglie denunciarono il mancato rientro dei loro cari e le autorità locali cominciarono le ricerche, ma inizialmente le persone interrogate non furono di nessun aiuto alle ricerche dell'abominevole personaggio in grado di far sparire così tante persone.
Il fatto che nessuno sopravvivesse alle aggressioni bestiali della famiglia Calaruzzo fece sì che la stessa riuscì ad operare indisturbata per un lungo periodo di tempo.
Le autorità in ogni caso non si fermarono e continuarono a cercare il responsabile di quello che stava diventando ormai un mistero inquietante; i genitori proibirono ai figli di uscire da soli e si armarono dei più disparati oggetti per difendersi dal possibile attacco di uno sconosciuto, non potendo lontanamente immaginare che dietro a questa terribile vicenda c'era un intero clan assetato di sangue e non solo.
Intanto, pur di dare un nome ad ogni costo all'artefice di questi misfatti, le autorità arrestarono  individui che non avevano nulla a che fare con quegli avvenimenti oscuri, ma che erano stati semplicemente gli ultimi a vedere gli scomparsi. A molti di loro furono estorte dai magistrati delle confessioni fasulle, in seguito alle quali furono messi al rogo o gettati dalla Rupe di Sant'Elia.

Il Cardinale Ruffo che festeggia la cattura
Un giorno, dei pescatori notarono tra le correnti dello Stretto di Messina delle strane cose che galleggiavano in mare, si avvicinarono e quello che videro provocò loro grande orrore e spavento: altro non erano che arti umani in putrefazione che le correnti  avevano spinto per una ventina di chilometri da dove erano stati gettati.
La notizia si divulgò in tutti i paesi adiacenti in pochissime ore. Quello che si spiaggiò sulle rive di Scilla e Cannitello  era indescrivibile, ormai gli abitanti non si sentivano più al sicuro, perché adesso c'era la prova che le persone scomparse sulla loro strada avevano incontrato un vero e proprio demonio, soltanto un mostro poteva osare così tanto.
La zona fu setacciata scrupolosamente da volontari e forze dell'ordine, tutti impegnati per trovare quella bestia che dal tragico terremoto del 1783  terrorizzava la comunità. Ci fu un momento in cui si andò molto vicino a scoprire il nascondiglio dei cannibali, ma l'alta marea ostruiva temporaneamente l'entrata della caverna, inoltre nessuno poteva immaginare che quel luogo cupo e tetro fosse abitato da essere umani.
La fortuna della famiglia Calaruzzo si stava comunque esaurendo e qualche giorno dopo un episodio traumatico mise fine a quell'orrore.
Nel 1799, una coppia di sposi stava ritornando a casa, dopo aver passato la giornata alla festa della Madonna di Bagnara, quando improvvisamente furono attaccati da Calaruzzo e da altri componenti del clan.
L'uomo si difese con tutte le sue forze, grazie ad una spada, ma la moglie cadde da cavallo e fu immediatamente raggiunta dai cannibali, che le tagliarono la gola e le succhiarono il sangue, per poi squartarle il ventre per estrarne gli intestini e altri organi, mentre il marito osservava impotente.
In quel momento arrivarono altri viaggiatori in soccorso alla coppia e la famiglia Calaruzzo, per la prima volta, fu costretta a fuggire, lasciando finalmente un sopravvissuto in grado di raccontare  quello che succedeva nella Costa Viola.
La situazione era talmente importante che anche il Cardinale Fabrizio Ruffo  fu informato dell'accaduto.
Quattro giorni dopo, un esercito di 900 uomini capeggiati dallo stesso Cardinale, accompagnati da cani da caccia inglesi, si avviarono verso il luogo della tragedia. Con loro c'era anche l'uomo che aveva perduto la moglie.
Perlustrarono l'intera zona senza trovare nulla di significativo, ma quando i soldati si avvicinarono alla caverna, i cani cominciarono ad abbaiare in direzione dell'entrata: fu chiaro che qualcosa si doveva nascondere lì dentro.
I soldati entrarono in quel luogo buio e umido e, accese le torce, si materializzò davanti a loro uno spettacolo terribile: appesi con dei ganci molti piedi, gambe, braccia e teste mozzate che penzolavano. Altri pezzi di uomini, donne e bambini conservati in salamoia stipati in un angolo, da un'altra parte un numero infinito di oggetti di valore e indumenti appartenenti alle vittime.
La famiglia Beane fu trovata nella parte posteriore della caverna, ci fu un tentativo da parte dei cannibali di difesa, ma le spade e il numero dei soldati placò subito qualsiasi tipo di resistenza.
Il clan, che con Sawney era formato da 48 membri, vennero portati a Reggio Calabria e successivamente, rinchiusi nella prigione di San Raneri a Messina.
Il giorno successivo, senza un processo, davanti ad una folla impazzita ed avida di vendetta, furono giustiziati in questo modo: agli uomini furono tagliate mani e gambe e i corpi mutilati lasciati  dissanguare in un fosso riempito di granchi scavato nella spiaggia di Catona   davanti agli occhi delle loro donne, mentre le stesse furono bruciate vive in tre roghi separati(Fossa San Giovanni, Scilla e Bagnara).
Prima di essere giustiziati, nessuno della famiglia Calaruzzo  mostrò segni di pentimento, anzi continuarono ad imprecare contro tutta la popolazione ed i loro giustizieri.
Con il passare dei secoli, questa storia incredibile è stata tenuta segreta, uno dei simboli di un epoca, quella medievale, dove, tra cacce alle streghe e torture d'ogni tipo inflitte ad innocenti, poteva accadere qualsiasi cosa, anche di vedere una famiglia come quella di Calaruzzo che per un quarto di secolo massacrò e divorò un imprecisato numero di persone, qualcuno sostiene addirittura cinquecento.

UN CASO LETTERARIO CALABRESE: FELICE DELFINO E IL SUO LIBRO

"Se mi chiedessero, a bruciapelo, qual'è tra i giovani autori italiani di saggi storici quello che preferisco, risponderei: Felice Delfino".
Dan Brown
 
Con questo inequivocabile twitt del 04 dicembre, il grande scrittore americano ha battezzato l'uscita del saggio di Felice Delfino "La presenza ebraica nella storia reggina”(Disoblio Edizioni). Un libro che, ha sentire gli addetti ai lavori, diventerà un autentico caso letterario.
La presentazione del libro avvenuta nelle prestigiose sale dell'Archivio di Stato di Reggio Calabria è stata la scintilla che ha acceso il tam tam mediatico sui principali social network, radio, giornali e tv.
Tanti gli attestati di stima nei confronti di Felice Delfino, lo si è potuto verificare anche sulle bacheche di Facebook: “Complimenti per l’impegno profuso nel rivisitare, raccogliere e ricomporre il significato della storia reggina e meridionale e complimenti alla relatori per i contenuti e per la soavità con cui li ha fatti giungere alla platea tenendo desta l’attenzione”, ha scritto la sig.ra Carmela. “Caro Felice, un libro prezioso, emozioni vere, un servizio reso alla nostra terra nel segno della tradizione e della memoria, la roccia su cui fondare la nostra identità”, ha commentato un giovane studente.
Il libro tratta in maniera scorrevole la storia di Reggio Calabria attraverso la fiorente comunità ebraica, a cui va riconosciuto il merito di aver importato in questa terra e di aver insegnato agli abitanti locali numerose attività che hanno reso la città di Reggio un vero e proprio centro del Mediterraneo, come la produzione del vino, della seta, l'impiego di tecniche avanzate di coltivazione e via dicendo.
L'opera ha lo scopo di evidenziare come la presenza ebraica nel reggino così come avvenuto nel resto del meridione è stata motivata dalla posizione geografica assai favorevole agli scambi commerciali, dal clima e dal terreno idonei a diverse tipologie di coltivazioni e soprattutto le zona portuali come vie di transito verso altre terre.
Purtroppo il loro allontanamento dal Regno nel 1541 si è rivelata una scelta poco felice, che ha decretato la decadenza economica dell'intera Regione.
Felice Delfino chiude la sua opera con una semplice quanto riflessiva consderazione "Cosa sarebbe accaduto se nel XVI secolo gli ebrei reggini e gli altri dislocati altrove non fossero mai stati allontanati dalle città o dai paesi nei quali hanno a lungo dimorato? Quale sarebbe stata oggi la condizione dell'economia calabrese nei secoli avvenire al 1541, se l'editto non fosse mai stato emanato?
Un libro da leggere!!!!

TROVATE POESIE EROTICHE APPARTENUTE A SAN BATELLO

Non poteva credere ai suoi occhi Rocco J. Pensabene, contabbandiere di Gallico Marina (RC), quando su quel vecchio diario ammuffito ha riconosciuto l’inconfondibile firma di Batello Ripepi, in arte San Batello(nella foto).
Il buon pregiudicato è salito in soffitta per la semestrale conta degli scarafaggi, poi lo sguardo è caduto su un pezzo di carta che sporgeva da sotto una catasta di cianfrusaglie (il signor Pensabene accumulava da decenni bambole gonfiabili, attrezzature sadomaso, deodoranti per ascelle, nell’attesa che gli tornassero utili il giorno che avesse deciso di cimentarsi nel primo rapporto sessuale). Raccolto il manoscritto, Rocco J. Pensabene ha subito cominciato a sfogliarlo e ha capito che si trattava di un diario con oltre 100 poesie erotiche scritte dal veneratisismo Santo di Reggio Calabria.
La storia è venuta fuori solo dopo un mese, quando il contrabbandiere ha ricevuto il positivo responso della perizia effettuata dalla Curia, che in una nota scrive: “La calligrafia del testo e delle firme è da considerarsi compatibile al 100% con quella di San Batello, specie se si tiene conto  del 50% dei profitti che otterremo dalla vendita del diario”.
Poco o nulla si sa del contenuto dell’opera. Dalle poche notizie recuperate nei quotidiani locali, San Batello avrebbe scritto 107 tra sonetti, ballate e madrigali, tutti a sfondo esplicitamente erotico. Le scorse settimane il Signor Pensabene aveva fatto trapelare alcuni dei titoli delle poesie, come ‘Ode al divin culetto riggitano’, ‘L'ano della Messinese’, ‘Tette al Vento’ e ‘Ode alla Bagnarota’.
Helen Lovejoy

BAGNARA: RITROVATO ANTICO CIMELIO DI GARIBALDI


Dopo il recupero di un cannone militare risalente al 1927, il sottosuolo di Bagnara Calabra regala
un incredibile ritrovamento archeologico: è stato riesumato un autentico cimelio appartenuto a Giuseppe Garibaldi.
La scoperta è avvenuta nelle profondità di un tombino nei pressi del crocevia tra Via Nastari e, neanche a farlo apposta, Corso Garibaldi.
Un uomo Toledo Iannì, infastidito per una fuoriuscita di liquami ha aperto un tombino, è sceso nelle viscere della rete fognaria bagnarase riuscendo a risolvere il problema dell'ostruzione.
Una volta risalito, ha portato alla luce un lungo budello di capra con dentro uno strano biglietto, perfettamente conservato, riportante la firma di Garibaldi.
Il signor Toledo ha fatto visionare l'oggetto ad un gruppo di storici dell'erotismo, che hanno confermato che si trattava del preservativo con cui Garibaldi, nella notte del 24/08/1860, ha copulato con una fantomatica "Carmeluzza" nella residenza di un'importante famiglia bagnarase.
Una lapide sita, appunto, in Via Nastari ricorda come l'ex commerciante di schiavi, poi divenuto l'eroe dei due Mondi, abbia effettivamente dormito a Bagnara, per poi proseguire per l'Aspromonte e portare a termine l'occupazione del Sud industrializzato.
La casa d'aste Cristie's Hoax ha valutato il rarissimo cimelio per un valore di circa 600mila euro(stesso valore del gettito dell'addizionale Irpef portata, con delibera di giunta numero 118/2013, da 0.50 a 0.80%).
Sarà compito dell'Amministrazione Comunale vendere questa rarità ed evitare l'indecoroso aumento dell'aliquota Irpef, che tanto farà male ai martoriati cittadini bagnaresi(tranne quelli che hanno decine di seconde case a cui l'aliquota IMU è rimasta invariata).
Pronipote di Carmeluzza